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Oltre lo smartphone.

Qualche tempo fa, navigando in rete, mi sono imbattuta in questa fotografia. Escamotage divertente ed anche brillante per arginare una abitudine che assume sempre di più l’aspetto di una criticità: il rapporto con i nostri smartphone, telefoni cellulare, tablet. Il fenomeno è riuscito ad attirare anche l’attenzione del Papa che un paio di settimana fa, dal suo balcone esortava a una riflessione su quanto il telefono, spesso, sia una fuga, nel suo caso dalla famiglia. Lo psicoanalista Massimo Recalcati qualche giorno dopo, sulle pagine di un quotidiano, approfondiva la stessa riflessione, direzionandola verso quanto questa “abitudine” nasconda, in realtà, una difficoltà sempre più dilagante in questi tempi: rimanere l’uno di fronte all’altro. Mi viene in mente l’acclamatissima azione performativa dell’artista Marina Abramovic dal titolo “The artist is present” presentata al MoMA di New York nella primavera del 2010. L’attrice per 736 ore è rimasta seduta su una sedia al centro di una sala, nel semplice atto di invitare i visitatori a sedersi di fronte a lei e a guardarsi negli occhi. I documentari che raccontano la performance lasciano spazio a immagini molto emozionanti di questi incontri.
Cosa ha a che fare la Abramovic con i cellulari? La ricerca di un incontro da cui fuggiamo. È un dato di fatto che, spesso, il nostro amato smartphone diventi un luogo di ritiro, un rifugio dove andare a stare per evitarsi il confronto con la realtà. Le vicende di cronaca sono ricche di casi di giovani ragazzi, che per mantenere “alta” la popolarità sui Social, si sfidano nelle azioni più assurde e pericolose per alzarne ancora di più il livello, in una forsennata ricerca di consenso. E cosa è un selfie se non un bisogno di mostrare al mondo il nostro lato perfetto, modificato e meglio scelto. E cosa la necessità di postare, pubblicare, riprendere sprazzi della nostra intimità e metterli li, in bacheca, alla mercé di chiunque li voglia guardare, per dimostrare, esporre, rendere pubblico chi siamo.
Ma lo sappiamo davvero chi siamo?
Allora il richiamo del Papa, della psicoanalisi e dell’arte di cosa ci vuole avvisare? Personalmente credo voglia guidarci verso una nuova consapevolezza, quella della fuga. Di quanta paura abbiamo di sederci gli uni di fronte agli altri e guardarci negli occhi e dirci veramente come stiamo e soprattutto chi siamo. Nell’incontro con l’altro, non solo nello sguardo, ma nell’emozione che nasce dalla condivisione del proprio sentire, ci troviamo sempre di fronte ai nostri limiti e alle nostre differenze; non solo alla parte bella e ben scelta che la vita virtuale ci da la possibilità di definire. Nell’incontro reale con l’altro, non abbiamo filtri da utilizzare, siamo vulnerabili, fragili, autentici e veri. È nell’incontro di una famiglia a cena che possono nascere i contrasti con i figli adolescenti, in cui entrambe le parti sperimentano la frustrazione del non sapere cosa dirsi, come dirselo e come fare a creare quel ponte che avvicina all’altro cuore, che sente e pulsa come il nostro. Ma è proprio quella frustrazione che può aiutarci a pensare e sentire nuovi modi per riuscire a raggiungere l’altro, se scegliamo di ascoltarla e non scappare nel telefono, se ci diamo la possibilità di sentirla e viverla e lasciare che ci guidi verso la riscoperta di nuove parti di noi e dell’altro. È questa l’essenza del guardarsi degli occhi, lasciarsi andare, affidarsi e mostrarsi alle persone che amiamo con la libertà che solo un incontro d’amore può costruire.
Non dimentichiamo che l’eccessivo utilizzo dello smartphone oltre che ammalare il cuore fa ammalare anche al corpo, i principali effetti a lungo termine riguardano : danni alla vista a causa della luce blu dello schermo, artrosi al pollice che usiamo per “tappare” lo schermo, tendinite al polso, dolori al collo e intorpidimento della schiena. Certamente a fianco alle criticità che accompagnano un eccessivo utilizzo di questo strumento, va riconosciuto al cellulare un enorme capacità di connessione, aggiornamento, ricerca e fruizione delle informazioni.
Come in tutte le cose, la soluzione è nell’equilibrio: scegliere un utilizzo consapevole dello smartphone, dove non è più via di fuga e costruzione di una realtà meno frustrante, ma un telefono cellulare con capacità più avanzate rispetto a un normale telefono.

A cura di Dott.ssa Claudia Russo
Psicologa Psicoterapeuta

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NON LIMITIAMO IL MOVIMENTO

“Chi gioca in prima base.
Non te lo chiedo te lo sto dicendo
Chi gioca in prima base?”
Numerose ricerche hanno dimostrato che esiste una correlazione tra sport e salute mentale e che praticare regolarmente un’attività fisica può portare benefici a livello psicologico. Ad esempio, esercitare uno sport
con costanza e regolarità è stato associato ad una riduzione della quota di ansia e depressione e ad un miglioramento della concentrazione e della memoria. In bambini e adolescenti con disturbo dello spettro autistico (Austism Spectrum Disorder-ASD), l’attività sportiva può contribuire al benessere psicofisico e induce importanti miglioramenti nel funzionamento comportamentale.
L’attività motoria è ritenuta fondamentale per un corretto sviluppo dell’individuo. Attraverso
l’esplorazione, la conoscenza e la scoperta del proprio corpo e dell’ambiente che ci circonda possiamo apprendere numerose abilità nelle diverse aree di sviluppo, conoscere i nostri limiti e le nostre potenzialità; confrontarci con il mondo esterno e mettere in gioco le emozioni nelle relazioni interpersonali.
Se questo è vero per un soggetto con sviluppo che rientra nella norma, lo è ancora di più nei bambini autistici dove le difficoltà sensoriali e comunicative si manifestano dai primi mesi di vita e persistono per tutta la vita. La compromissione delle relazioni sociali e gli interessi ristretti legati ad abitudini ripetitive, in
combinazione con difficoltà motorie comunemente presenti in questo disturbo, possono limitare la volontà di impegno nella pratica di un regolare esercizio fisico. Questo atteggiamento, a lungo andare, porta ad adottare uno stile di vita sedentario che a sua volta conduce a conseguenze che includono fattori di rischio cardio-metabolici, compromissione del benessere psicosociale, delle funzioni cognitive e aumento di peso.
Le difficoltà di attivarsi emotivamente e fisicamente di fronte ad uno stimolo. delle persone con autismo fanno sì che esse presentano problemi specifici nella coordinazione oculo-manuale, nella coordinazione generale e nell’organizzazione spazio-temporale.
L’attività motoria può rappresentare un’occasione importante per migliorare le qualità di vita. La pratica e l’educazione attraverso il gioco, il movimento e l’attività in gruppo offre la possibilità di acquisire competenze spendibili poi nella vita quotidiana attraverso la conoscenza e la cura del proprio corpo. L’attività fisica migliora la capacità di attenzione e la partecipazione alle attività; migliora la capacità di finalizzare un comportamento ad un compito da realizzare; insegna a rispondere correttamente a richieste; aiuta a tenere sotto controllo comportamenti inappropriati; favorisce l’allungamento dei muscoli e quindi la decontrazione, migliorando la postura. Si evidenzia inoltre che le stimolazioni e gli apprendimenti motori mantengono la plasticità cerebrale; l’attività fisica incanala l’eccesso di energia migliorando il comportamento; scarica le tensioni;
anche l’aspetto alimentare ne trae vantaggio, sia per la regolazione che per il maggior consumo energetico (comportamenti alimentari scorretti); e si evidenzia un miglioramento del sonno dovuto ad un sano
affaticamento. Incoraggiamo quindi tutti i bambini e gli adolescenti al movimento e lavoriamo perché acquisiscano sani e attivi stili di vita.
“Dottore: Raymond? Sai cos’è l’autismo?
Raymond: Sì.
Dottore: E tu sei autistico?
Raymond: … Non credo. No. Assolutamente no”
(Dal film “Rain Man – L’uomo della pioggia”)
A cura di Rossana Di Battista PhD- Docente Scienze Motorie Scuola Superiore di Secondo Grado.

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MI LEGGI UNA STORIA?

“Dovremmo riempire il cuore di gentilezza, la bocca di educazione, le mani di accoglienza e la testa di buoni libri.
Forse solo così potremmo tornare a essere umani.”
(F. Caramagna)

Nelle opere di Platone leggiamo che le donne più anziane erano solite raccontare ai bambini storie simboliche dette “mythoi”, rendendo, già da allora, le fiabe connesse con l’educazione dei bambini. Il filosofo e scrittore Apuleio inserì nel suo celebre romanzo “L’asino d’oro” la favola di “Amore e Psiche”, del tipo “La Bella e la Bestia”, secondo un modello che ancora oggi troviamo in Norvegia, Svezia, Russia e altri paesi. Arrivando alla conclusione che questo tipo di fiaba (quello che narra d’una donna che libera un innamorato che ha l’aspetto d’animale) esiste, praticamente inalterato, da duemila anni. Sono state ritrovate fiabe ancora più antiche anche in papiri e stele d’Egitto.
Le fiabe sono l’espressione più pura e semplice dei processi psichici dell’inconscio collettivo, esse rappresentano gli archetipi nella forma più semplice, più genuina e concisa. In questa forma così pura, le immagini archetipiche ci offrono i migliori indizi per comprendere i processi che si svolgono nella psiche collettiva.
Le fiabe riflettono più chiaramente i modelli fondamentali della psiche – invece i miti e le leggende sono rivestiti in modo maggiore di materiale culturale – e tutte, nella loro diversità, mirano a descrivere un solo evento psichico: il Sé, che costituisce la totalità psichica dell’individuo, ma anche, paradossalmente, il centro regolatore dell’inconscio collettivo.
Perché è importante leggere con i bambini
Per condividere la lettura con i nostri bambini non c’è un preciso momento da rispettare.
Per un bambino la voce della mamma, del papà e dei propri cari…è qualcosa di davvero speciale. Già dall’utero della madre il bambino può ascoltare i rumori che sente intorno a sé. Soprattutto percepisce la voce della madre ed ecco perché raccontare, leggere per lui già in gravidanza, potrebbe essere un’esperienza unica.
La psicologia dell’Età Evolutiva si è interessata allo sviluppo cognitivo del bambino circa l’importanza della lettura ad alta voce da parte delle figure genitoriali.
Donare sin dalla più tenera età la curiosità verso la lettura di una semplice e piccola fiaba può avere dei grandi e preziosi risvolti per lo sviluppo della personalità dell’adulto che sarà, sul piano emotivo, cognitivo, relazionale, linguistico, sociale e culturale.
Leggere una fiaba al proprio bambino crea un rituale giornaliero d’amore, uno spazio che forma un continuum di vicinanza, fisica ed emotiva, tra adulto e bambino. Il processo di simbolizzazione, con il quale si associa un concetto a un’immagine, a un suono o ad una parola, verrà agevolato da questo scambio tra adulto e bambino. Quindi non solo favorisce l’instaurazione di una relazione efficace, ma fa anche strada a delle buone abitudini, come quella dell’ascolto.
La lettura favorisce lo sviluppo dell’apprendimento, delle capacità di attenzione ed accresce il vocabolario migliorando quindi anche la comunicazione.
Con il tempo la lettura aprirà la curiosità del bambino a leggere altri libri…ovviamente ogni bambino è diverso e crescendo seguirà i suoi interessi, le sue curiosità di lettura stimolando anche la propria creatività.
Ma soprattutto a partire da una fiaba e continuando magari in futuro con dei buoni libri…i bambini leggendo si preparano anche alla vita. Ogni fiaba o storia gli mostra diverse dimensioni, li prepara ad affrontare le avversità della vita e leggendo si crea in loro uno spazio mentale necessario anche alla comprensione delle proprie emozioni.
La lettura di una fiaba purtroppo appare a molti banale, ma in realtà apre le porte all’insegnamento di preziosi valori che al giorno d’oggi vengono spesso trascurati: l’amicizia, l’amore, la gentilezza, l’accoglienza.
Articolo e disegno a cura di dott.ssa Sara Lippo Psicologa Specializzanda in Psicoterapia

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LA CREATIVITA E’ ESSENZIALE

“Vi ricordate il segreto che la Volpe svelò al Piccolo Principe? L’essenziale è invisibile agli occhi.
Quanto è vero! E ciascuno di noi, come il Piccolo Principe, dovrebbe tornare più volte ai roseti del proprio mondo (esperienziale) per scoprire che non tutte le rose sono uguali alle altre. E la via dell’arte, che è una via del cuore, può rendere visibile ciò
che sfugge agli occhi della qualità e del benessere di una vita.”
(S. Federici)

Oggi si sente parlare sempre più spesso di creatività nelle sue diverse accezioni.
L’aggettivo “creativo” è di origini molto antiche ed è inteso come ciò che “riguarda la creazione” o “che ha l’abilità e il potere di creare”. Rifacendosi ad una definizione più ampia proposta per il verbo creare (di cui va notato che la radice latina è comune a quella del verbo “crescere”): “produrre dal nulla”, fare nascere qualcosa di nuovo elaborando in modo originale elementi preesistenti, inventare, ideare…
La parola creatività rimanda subito i nostri pensieri ad una dimensione eccezionale, legata a qualche produzione artistica di un certo livello, come se l’atto creativo fosse un’esclusiva riservata a pochi fortunati individui, i cosiddetti “genii creativi”. In realtà la creatività è una qualità presente in ogni essere umano e va pensata nelle sue dimensioni più quotidiane, ordinarie e quindi come potenzialità presente in ciascun essere fin dalla nascita.
Può però rimanere sepolta se inibita da fattori contestuali ostacolanti o, al contrario, sviluppata al massimo delle sue possibilità se stimolata da una rete adeguata ed efficace di relazioni sociali, familiari, culturali, educative. La vera creatività umana deve intendersi non solo come la capacità di dare vita ad opere d’arte o di produrre comunque un oggetto espressivo, nuovo od utile, ma anche come la capacità di vivere e comunicare empaticamente emozioni profonde e di valenza universale. In tal senso è creatività ogni oggetto o comportamento o ogni altra libera espressione creati dall’essere umano nell’ambito di un rapporto empatico con il mondo esterno. È essenziale per vivere pienamente e positivamente ogni nostro rapporto con noi stessi, con la natura e con gli altri. La creatività è l’espressione più piena di quella tendenza a realizzare se stessi e a realizzare in modi efficaci le proprie potenzialità che in termini semplici si traduce nella capacità di vivere del proprio talento. Vivere per la persona creativa è espandere al massimo tutte le capacità dell’Io nella loro massima valorizzazione. Questo è vero in modo particolare per quei creativi con massima apertura alle esperienze della vita, che possiedono molta sicurezza interiore e una struttura cognitiva molto plastica sia per quanto riguarda i concetti, le percezioni che per le ipotesi. Tollera le ambiguità e le informazioni contrastanti e mai adotta posizioni cristallizzate. Grazie ad una personalità forte e alla capacità di giudizio indipendente approda ad una libertà intellettuale non comune che consente accostamenti inusuali di idee, colori, forme: formula ipotesi assurde, giustappone elementi impossibili, rende problematico ciò che appare ovvio e trasforma le cose in altro.
La salute non è una prerogativa della sola medicina tradizionale. Anche l’arte è esperta di salute, può guidarci, attraverso i processi creativi, ad accogliere il funzionamento umano e a favorirne il benessere agendo su di essi. E siccome l’esperienza artistica possiede una base biologica, prima ancora che sociale, universale e non solo culturale, può essere efficace anche a quel livello che finora sembrava poter essere prerogativa della sola medicina, cioè al livello biologico dell’essere umano.
Il processo creativo coinvolto nell’espressione personale è in grado di aiutare le persone a risolvere conflitti e problemi, sviluppare le competenze interpersonali, gestire il comportamento, ridurre lo stress, aumentare l’autostima e la consapevolezza di sé, e raggiungere insight. Non a caso spesso le espressioni creative ed artistiche fungono da punto di svolta e di forza in quei casi dove le parole per raccontare e “raccontarsi” non sono sufficienti, oppure sembra non vi siano affatto.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, così disse la Volpe al Piccolo Principe nel racconto di Antoine de Saint-Exupérye e ciascuno di noi come il protagonista, dovrebbe tornare più volte in quei roseti del proprio mondo esperienziale per scoprire che non tutte le rose sono uguali. La via dell’arte, che è una via del cuore, può rendere visibile ciò che sfugge agli occhi per raggiungere il benessere nella propria vita. L’espressione creativa è proprio ciò che ci permette di riconquistare il colore e le sfumature della vita che sono parte essenziale della nostra natura.

A cura di Dott.ssa Sara Lippo Psicologa Specializzanda in Psicoterapia
Immagine: A. Agostini, “Il viaggio delle emozioni porta lontano il cuore”

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LA RISCOPERTA DI UN SORRISO CONDIVISO

Una volta divenuti adulti molti dimenticano quanto possa essere spontaneo e sincero un bambino.
Attualmente la perdita del contatto col mondo dell’infanzia, con la spontaneità e con il vero sentire creano un mondo di solitudine, il loro posto é stato preso dal culto delle apparenze, dalla scarsa autenticità nella relazione con se stessi e con chi ci sta intorno.
Il tempo é diventato un nemico da combattere e da battere, per cui è diventato superfluo e difficoltoso fermarsi a sorridere, a godere della presenza dell’altro e a donare la propria agli altri, persino ai propri figli.
In qualità di testimonianza di questo forte cambiamento sociale, si puó menzionare il divario emotivo sempre maggiore che esiste tra un adulto ed un bambino. Recentemente mi è stato chiesto se fosse vero che i bambini sorridono di più, a tale domanda mi sono sentita di rispondere che in realtà loro non sorridono di più ma “sorridono veramente”. Il sorriso dei bambini è spontaneo, corrisponde davvero al provare un’emozione, piccola o grande che sia. Ad un bambino basta molto poco per sorridere: una corsa sul prato, un arcobaleno o una visita inaspettata. Ad alcuni adulti a volte serve qualcosa di più per sorridere, qualcosa di materiale ed effimero, con il rischio però di alimentare altra insoddisfazione. Di conseguenza l’essere ed il sentire vengono messi da parte privilegiando il possedere e l’apparire che messi in gioco nelle relazioni con i figli possono intaccarne l’autenticità.
I rapporti in famiglia e con i propri figli sono mutati, così come lo è il modo di essere genitori. Oggigiorno si tende a riempire il tempo dei bambini e la loro vita di cose, vestiti, attività, giochi ed oggetti di ogni genere, anche non realmente desiderati dal bambino. Gli si propone un utilizzo esagerato ed improprio della tecnologia al fine di “tenerli occupati” sottovalutando l’importanza del donare la propria presenza: il proprio tempo ed il proprio esserci. Quindi è sempre più frequente incontrare bambini in grado di usare perfettamente il cellulare di mamma e papà, ma goffi e disinteressati verso giochi di movimento e di relazione.
Può capitare che i genitori siano impegnati in gran parte della settimana con il lavoro e che facciano difficoltà poi nel weekend a creare uno spazio di condivisione con i propri figli. Il non conoscersi e le varie incomprensioni derivano spesso da queste mancanze, dall’assenza di uno stare insieme che sia di senso e di qualità.
Così i bambini si adeguano a tali mancanze portando avanti un chiedere “senza disturbare”, non giocando con i genitori, a scegliere la compagnia del telefonino, a competere per una maglietta alla moda, a conoscere argomenti inadatti alla propria fascia d’età, a dare meno valore ai rapporti reali perché c’è la possibilità di “incontrarsi” su internet senza nemmeno uscire e fare quindi insieme un gioco virtuale.
Bisognerebbe fermarsi a riflettere e imparare un po’ di più dall’autenticita’ dei bambini: una passeggiata mano nella mano in più e un giocattolo comprato in edicola in meno. Perchè di tutti gli oggetti materiali desiderabili non rimarrá nulla, non andranno a colmare certe mancanze, ma il tempo passato insieme al proprio bambino lascerà una traccia d’amore indelebile e sarà proprio quella traccia che alla fine farà la differenza nella costruzione della persona che sarà domani.
A cura di Dott.ssa Luisa Ceccarelli Psicologa Psicoterapeuta Psicomotricista
Ph : Nicola Vinciguerra

lupo.”
(R. Kipling)
A cura di Rossana di Battista PhD – Docente Scienze Motorie Scuola Superiore di secondo grado

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L’attesa del Dono: il percorso, a volte tortuoso, verso la trasformazione da “l’Io e il Tu” al “Noi”

L’attesa del Dono: il percorso, a volte tortuoso, verso la trasformazione da “l’Io e il Tu” al “Noi”
“Sono le difficoltà che fanno nascere i miracoli.”
(William F. Sharpe)

Fin dagli albori della storia dell’uomo, la procreazione ha rappresentato uno degli aspetti centrali della sua vita. Diversamente dagli altri esseri viventi, per l’uomo la prole ha non solo la funzione di conservazione della specie, ma anche il significato di continuità del proprio sangue nel tempo e nelle generazioni successive, come pure di affermazione della propria identità come uomo o donna e come coppia. Il desiderio dell’uomo di procreare, quindi, è legato ad aspetti psicologici complessi che vanno dall’affermazione di Sé e del proprio corpo, della propria identità sessuale e di ruolo, all’affermazione della coppia e anche come semplice desiderio di dare vita al frutto del proprio amore, o come testimonianza della propria esistenza nel futuro. Il desiderio di maternità o paternità (come pure il suo opposto) non nasce dunque nel momento in cui la coppia prende la decisione concreta di generare un figlio, ma si struttura e modifica nel corso dell’esistenza degli individui, sulla base di un retaggio culturale, di tabù e credenze familiari e di convinzioni personali. Ed è proprio la natura della sua origine multipla che fa scattare nell’individuo una serie di sentimenti ambivalenti nei confronti della genitorialità: ciò non vuol dire che tale condizione sia patologica, anzi, sentimenti e paure contrastanti, se non a livelli troppo elevati, fanno parte del naturale corso della vita e verranno poi rielaborati, armonizzati e superati nel corso dello sviluppo, della presa di decisione di divenire genitori e nel corso della gestazione. Tale decisione solitamente prende piede dopo l’avvenimento di un’altra tappa fondamentale dell’esistenza: la creazione della coppia.
Già la scelta del partner non avviene in maniera casuale, ma si basa su un “patto” tacito e partecipato nel quale vengono condivisi sogni, paure e progetti. Capire quali siano le motivazioni alla base di questo “patto” consente di comprendere meglio anche cosa avviene nelle fasi di crisi per l’individuo o per la coppia stessa.
Molto spesso il patto coniugale non si basa sul desiderio di procreare, ma sulla necessità di avere un figlio: scoprire di non poter realizzare tale bisogno, quindi, pone inevitabilmente di fronte ad una crisi profonda che coinvolge non solo la sfera intima dell’individuo, ma anche l’equilibrio della relazione coniugale e i rapporti che i singoli e la coppia intrattengono col mondo esterno.
Così come la fertilità occupa da sempre un posto centrale nell’esistenza, uno dei problemi più grandi che potessero affliggere la vita dell’uomo, è sempre stata l’incapacità di procreare. Negli ultimi anni, soprattutto dagli anni sessanta ad oggi, il tasso di natalità è drasticamente diminuito, mentre sono aumentate notevolmente le richieste di consulenze per problemi legati alla fertilità. Il motivo di tale incremento in parte è ovviamente legato alle diverse prospettive di vita: se un tempo la nascita del primo figlio avveniva prima dei vent’anni d’età, oggigiorno ci si sposa molto più tardi, si entra più tardi nel mondo di lavoro, aumentano il numero di divorzi, con la conseguenza che la nascita del primogenito viene rimandata spesso a dopo i trent’anni. Poiché il picco di fertilità si aggira attorno ai vent’anni, mentre c’è una discesa drastica dopo i trentacinque, non stupisce il fatto che le coppie che si rivolgono agli istituti di cura per problemi legati alla fertilità sia aumentato in maniera esponenziale. Storicamente, la causa della sterilità è sempre stata attribuita alla donna; negli anni, grazie all’evoluzione della scienza, le responsabilità sono state ridistribuite tra uomini e donne, ma esistono comunque numerosi casi in cui non è possibile giungere alle cause del problema. In una percentuale relativamente alta, infatti, si parla di sterilità idiopatica ad indicare quei casi in cui le cause del problema non sono state rintracciate, mentre si parla di sterilità psicogena quando le cause della sterilità si sospetta siano di origine psicologica. In passato, la percentuale di casi stimati di sterilità psicogena era all’incirca del 50%, una percentuale altissima: il motivo di questa sovrastima può essere imputato alle scarse metodologie d’indagine dell’epoca, e dunque non era difficile che si giustificasse ogni sterilità inspiegata con disturbi di ordine psicologico. Con l’avvento delle nuove tecniche, questa percentuale si è di gran lunga ridimensionata, fino ad arrivare ad una percentuale del 10% circa. In realtà, ancora oggi ci sono numerosi dubbi circa le diagnosi di sterilità psicogena, poiché, come molti autori sostengono, è una diagnosi che si può effettuare con certezza solo a posteriori, nel caso di una gravidanza raggiunta al termine di un percorso psicoterapeutico.
Un altro disturbo del concepimento è l’infertilità, intesa come incapacità da parte della madre di portare a termine la gravidanza. Si tratta in questo caso di un avvenimento molto diverso sul piano psicologico: secondo la Vegetti Finzi, la sterilità può essere definita come assenza di un figlio, mai come inesistenza, poiché il bambino preesiste alla maternità e non si esaurisce con essa; nell’infertilità invece, si ha la perdita del figlio reale, che, anche se nel corpo della madre, è presente fisicamente e nella relazione con lei e con il padre. In questo caso, dunque, la coppia si trova a far fronte ad una crisi che richiede l’elaborazione non solo del lutto relativo all’incapacità di procreare e quindi di divenire genitori, ma anche alla perdita del figlio e del legame affettivo stretto con lui . Anche in questo caso, le cause all’origine del disturbo possono essere molteplici, da quelle organiche a quelle di ordine psicologico, ma che, per forza di cose, sono riconducibili alla sola figura materna.
In entrambi i casi, comunque, hanno un forte impatto gli effetti che queste condizioni possono generare nella vita dell’individuo, della coppia e del loro gruppo di appartenenza più stretto.
Per questi motivi, negli ultimi anni stanno venendo a delinearsi numerose tecniche di intervento mirate non solo alla diagnostica di disturbi psicologici pre- o post- esistenti alla diagnosi di “non-fertilità”, ma anche e soprattutto finalizzati al supporto della persona nel far fronte alla crisi di vita che ne deriva. In un momento così difficile e delicato per l’individuo e per la coppia, l’aiuto da parte di figure quali lo psicologo e lo psicoterapeuta può essere determinante, sia per quanto concerne la diagnosi, per escludere o identificare qualsiasi causa psicogena, sia nel processo di elaborazione del disturbo del concepimento, come prevenzione del disagio psicologico, sia nel superamento delle difficoltà e della sofferenza derivanti dalla mancata realizzazione di questo grande progetto: la genitorialità.

A cura della Dott.ssa Barbara Mastroberardino
Psicologa e Psicoterapeuta

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INSIEME É MEGLIO

“Il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé e per il gruppo…Dinamiche dominanti, signori, dinamiche dominanti.”
(dal film “A Beautiful mind”)

Nessuna persona al mondo è perfetta, tutti noi abbiamo dei difetti e dei limiti; l’unico modo per superarli sta nel collaborare ovvero aiutarci in determinate situazioni problematiche. Il bisogno di aiutare è intrinseco nell’uomo, una persona si sente, o almeno dovrebbe sentirsi, in obbligo di aiutare un’altra persona in difficoltà. Da questo istinto più o meno biologico, nascono il gioco ed il lavoro di squadra dove un gruppo di persone lavora e collabora per il raggiungimento di un obiettivo comune.
Una premessa fondamentale della vita sociale è che molte teste funzionano meglio di una sola, ma non sempre riusciamo ad essere umili e riconoscerlo. Spesso ci esaltiamo all’idea di una competizione e sottovalutiamo il valore della cooperazione perché siamo gelosi del nostro sapere, del nostro valore, del buon risultato di un’azione, risultato che non vogliamo dividere con altri. Vogliamo emergere individualmente. Si vive, si lavora gli uni accanto agli altri ma senza condivisione o ascolto.
Squadra: ecco la parola che dice tutto. Il lavoro di squadra incoraggia la cooperazione al servizio degli obiettivi che ci si è prefissati, anziché la competizione fra gli individui. Una squadra è una cosa sola, un agglomerato unico. Si vince insieme, si perde insieme, ci si muove insieme, si gioisce insieme e si soffre insieme. È la squadra che conta. È quello che si fa per raggiungere un obiettivo comune che conta. Sacrificio, generosità, coralità, equilibrio. Esiste una grande differenza tra lavorare in gruppo ed essere una squadra.
Il gruppo può anche tirare dalla stessa parte, come in un tiro alla fune, ma una squadra è qualcosa di diverso, più complesso, più sofisticato e più potente; è un aggregato di persone con competenze diverse che condividono lo stesso obiettivo e nella quale ci sono ruoli specifici. La squadra contiene differenze tra le persone che si integrano per creare un solo insieme.
Sono necessari alcuni atteggiamenti di base che consentono lo sviluppo di un clima emotivo positivo.
L’accettazione: accettare i compagni con le loro caratteristiche, il loro modo di vedere e di sentire;
Il rispetto: rispettare l’identità, la dignità, e i diritti di ogni compagno evitando ogni tipo di offesa;
⦁ Il riconoscimento: riconoscere ogni compagno come degno di ascolto, considerazione, supporto e, non ultimo,
l’apprezzamento: attribuzione di valore al compagno per i suoi pensieri, atteggiamenti, comportamenti.
Ogni membro della squadra ha il suo obiettivo ma il veicolo, il mezzo per realizzarlo è la squadra. Se qualcuno ha difficoltà, tutti hanno difficoltà, la forza del gruppo sovrasta quella dei singoli. Perché è proprio l’appartenenza alla squadra che stimola il singolo a rendere al massimo, superando barriere che da solo non riuscirebbe mai ad affrontare.
“La forza del lupo è il branco, la forza del branco è il lupo.”
(R. Kipling)
A cura di Rossana di Battista PhD – Docente Scienze Motorie Scuola Superiore di secondo grado

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Il diritto a crescere…felice!

Il 20 novembre 1989 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, portandoci quindi a celebrare oggi il trentesimo anniversario di questa ricorrenza. Fu una giornata che segnò una profonda svolta per il bambino e quindi per l’uomo poiché la storia sociale ci fa notare che la figura dei bambini è stata molto marginale fino al diciannovesimo secolo.
Questi diritti non sono solo un insieme di articoli, legislazioni e protocolli rivolti ai minori, sono molto di più: è un testo che dà voce ai bambini, ne raccoglie le sofferenze, i desideri e le speranze per il futuro. Questa Convenzione si propone di garantire tutela senza discriminazioni di alcun tipo ponendo come prioritario l’interesse del minore e promuovendo il suo diritto alla vita, alla sopravvivenza e al suo sano sviluppo. Ogni Stato aderendo si propone di garantire al meglio la tutela di tali diritti anche attuando la collaborazione tra Stati.
La Convenzione dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ha messo in evidenza ciò che deve essere visto: il minore in tutta la sua bellezza e fragilità. Ma oltre a riconoscere il minore nella sua unicità e nei suoi diritti, ognuno di noi, nel suo piccolo, può tutelare questi diritti con l’ASCOLTO.
I bambini e gli adolescenti di tutto il mondo hanno una voce, una voce che non sempre è fatta di parole. A volte è una voce fatta di silenzi, di lacrime nascoste, e grida inghiottite…di vite gettate nell’ombra.
È necessario un ascolto attivo da parte nostra che si radichi nel profondo, che senta con il cuore e non semplicemente prestando l’orecchio per poi volgere via lo sguardo.
Il bambino ha diritto ad essere rispettato nei suoi tempi, di giocare, di ricevere e dare affetto nella sua forma più incondizionata. Ogni bambino, soprattutto chi è in difficoltà, ha bisogno di qualcuno che gli ricordi il suo diritto a crescere felice, di una comunità che gli offra sostegno, sicurezza…possibilità. Sono loro la risorsa più grande, sono le piccole fiaccole luminose che un giorno daranno luce ad un futuro migliore.
“Ogni mattina il mondo è un foglio di carta bianco e attende che i bambini, attratti dalla sua luminosità, vengano a impregnarlo dei loro colori” (F. Caramagna)
A cura di Dott.ssa Sara Lippo Psicologa Specializzanda in Psicoterapia

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La favola delle monete

“Una notte qualsiasi di un tempo qualsiasi, una persona fece un sogno speciale: sognò che riceveva una certa quantità di monete dalle mani dei suoi genitori. Non sappiamo nemmeno di quale metallo fossero fatte, se d’oro, d’argento, di bronzo o di umile ferro. Mentre sognava che i suoi genitori gli consegnavano le monete, avvertì spontaneamente una sensazione di calore al petto. Si sentì pervaso da una grande gioia. Era contento, si riempì di tenerezza e dormì placidamente per il resto della notte”.
È questo l’incipit di una novella di J. Garega che esprime, a livello simbolico, il senso dell’eredità tra genitori e figli. Questa trasmissione, non genetica e non materiale, si concretizza nei talenti che possediamo, nelle competenze che scegliamo di maturare e nelle esperienze che la vita ci propone affinchè possano esprimersi.
Con talento, ci riferiamo ad un’abilità innata nel saper fare qualcosa. Questa inclinazione è unica e diversa per ogni persona. È molto importante prenderci del tempo per scoprire o riscoprire i nostri talenti e dar loro attenzione. Questo ci consente di portare alla luce e riconoscerci delle abilità innate che definiscono chi siamo e cosa sappiamo fare. Lavorare sui nostri talenti, significa quindi, darci la possibilità di essere unici rispetto a delle caratteristiche e riconoscerci in esse. Questo passaggio ci da il senso della definizione di noi stessi rispetto agli altri.
Diverse sono, invece, le competenze. Con competenza ci riferiamo alla capacità di far fronte ad un compito o obiettivo, mettendo in moto le nostre risorse interne ed utilizzando quelle esterne, disponibili. Le competenze si scelgono e si maturano, non sono innate o spontanee, ma possono essere il frutto di un processo di apprendimento attraverso il quale decidiamo di crescere in quella specifica parte.
Le esperienze, si raffigurano come il ponte di collegamento tra il talento e la competenza. È tramite l’esperienza della realtà e di noi stessi nella realtà che entriamo in contatto con i nostri talenti, e maturiamo le competenze di cui abbiamo bisogno per mantenere un equilibrio psico-fisico e fare esperienza di un’ armonia tra sentire, pensare e fare.
Quando si parla di talento, pensiamo subito a talenti straordinari e noti di cui abbiamo sentito parlare o ai quali ci siamo appassionati. In realtà, ognuno di noi porta in sé il proprio talento personale, che a volte somiglia a quello dell’eroe del mondo dello sport che aneliamo, ma che tante altre volte risiede in quelle piccole qualità per cui veniamo riconosciuti e apprezzati e per cui ci riconosciamo. La chiave, risiede nell’andare alla ricerca del nostro talento, farne esperienza, appassionarci ad esso e maturare la competenza necessaria per esprimere noi stessi attraverso la sua voce.
Non è tanto essere famosi al mondo per ciò che si sa fare, quanto essere famosi a noi stessi.
La favola delle monete ci ricorda, proprio, quanto è importante fermarsi a riconoscersi, ma soprattutto fermarsi a ricordare da dove siamo venuti e a chi dobbiamo essere riconoscenti per ciò con cui siamo partiti per il viaggio della vita.

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“Come mi sentirei al suo posto”?

Quello della genitorialità è uno degli argomenti più difficili su cui scrivere e di cui discorrere, bisogna usare molta attenzione e cura perché la relazione genitori e figli è generativa, nel senso che è da li che veniamo su, tutti quanti.

Le librerie, il web ed anche la bacheche pubbliche sono piene di affissioni e pubblicazioni di corsi alla genitorialità il cui obiettivo è quello di accogliere le insicurezze e i dubbi di tanti genitori che “non sanno come fare”. Proviamo a fare un po’ di chiarezza. Prendendo spunto dal saggio di Bettelheim “Un genitore quasi perfetto”, le fondamenta su cui edificare una buona relazione con i propri figli sono l’empatia, la fiducia e la comunicazione affettiva. Ma che significa?

Andiamo avanti un passettino per volta, l’ambiente della relazione genitore-figlio è per il bambino, fin dal primo attimo del suo concepimento, lo spazio in cui più apprenderà rispetto al mondo e rispetto a sé stesso. Nei suoi primi anni, il bambino utilizza l’assenso o anche solo il cenno di assenso di uno dei genitori per comprendere se la direzione che sta prendendo o ciò che sta facendo va bene oppure no. Quindi il genitore diventa il suo filtro attraverso cui definisce sé stesso e il suo rapporto col mondo. Arrivano spesso per un consulto genitori preoccupati dal peso del ruolo della genitorialità e insicuri rispetto ai metodi educativi che stanno utilizzando o scossi per reazioni dei figli che non sanno come comprendere e gestire.

A volte l’aspettativa di fare un “buon lavoro” spinge verso l’irrigidimento, altre lo stile genitoriale si costruisce in opposizione rispetto a quello ricevuto da bambini, altre ancora il timore di perdere un rapporto preferenziale spinge verso uno stile più amicale che autorevole. Ognuna di queste strategie nasce dalla storia del bambino che è dentro il genitore, che per quanto possa sembrare un nemico, può trasformarsi nel più prezioso degli alleati. Ricordo un momento preciso della mia vita, in cui, confrontandomi vis a vis con un bambino, rispetto ad un tema di particolare rilevanza per lui, ho avuto la reale percezione di quanto di fronte a me avessi un persona tutta intera, con al suo interno tante riflessioni e pensieri e teorie rispetto alle cose, quante ne potevo avere io che di anni ne portavo dietro molti di più. Capita a volte che nella relazione con i figli, concentrati sulla scelta giusta per noi, non ascoltiamo quella che loro desiderano.

Ora, il punto che desidero approfondire rispetto a tutto ciò, è quanto portiamo di noi e del nostro passato nel nostro modo di essere genitori. Se ci fermiamo un attimo a fare mente locale, ognuno di noi riuscirà a rintracciare nel modo in cui agisce o nelle reazioni dei figli qualcosa che gli appartiene. Un genitore che di base ha delle insicurezze rispetto a sé stesso nei confronti della vita, avrà più possibilità di trasportare queste insicurezze nel rapporto col figlio e passargli più che un senso di possibilità e fiducia un senso di inadeguatezza e chiusura. Un genitore che reagisce con la chiusura rispetto all’irriverente sbotto adolescenziale del figlio, probabilmente ha messo da parte i ricordi di come lui si sentiva quando era da quella parte e viveva gli stessi tentativi di affermazione.

Questi esempi per arrivare a esprimere quanto il concetto di empatia e fiducia cui accennavo all’inizio partono proprio da qui, da un costante lavoro di comprensione e accettazione di quello che proviamo in quel momento, noi per primi, in modo tale da restituirne ai nostri figli una versione a loro comprensibile che possano trattenere dentro di sé come un’emozione tollerabile. I bambini e gli adolescenti vivono le emozioni in maniera amplificata rispetto agli adulti proprio perché non sono ancora capaci di riconoscerle e gestirle, trovare a fianco un complice che riesca ad aiutarli in questo processo è uno dei doni più preziosi e profondi che possano ricevere. Nelle situazioni più critiche, sono solita chiedere a me stessa “ come mi sentirei al suo posto?”, “ come avrei reagito al suo posto?” e le risposte diventano per me il più potente strumento di empatia e connessione con l’altro, perché mi aiutano a venire meno a me stessa, lasciando lo spazio necessario per la comprensione del vissuto dell’altro.

Questo ci permette di costruire una relazione autentica, basata su ciò che veramente siamo, senza bisogno di nasconderci dietro castelli di autorità o muri di rigidità, lasciando le emozioni libere di fluire. Nel sentire questo movimento di tolleranza, accettazione e comprensione ogni bambino riuscirà a strutturare dentro di sé lo stesso atteggiamento verso se stesso oggi, portandolo poi verso l’adultità trasformato in fiducia in sé e del proprio posto nel mondo.